La banalità del male (di Fabrizio Pezzani)

Il libro “La banalità del male” venne scritto da Hannah Arendt e pubblicato nel 1963; la Arent, filosofa politica e perseguitata a sua volta dal regime nazista, aveva seguito il processo ad Eichmann per crimini di guerra ed evidenziato come quello che era stato un efferato criminale, nella vita quotidiana e familiare fosse una persona assolutamente “normale” ed asimmetrica rispetto alla spietatezza che esercitava nel suo “lavoro”. È possibile, si domanda la Arendt, che individui apparentemente normali e giudicati tali da esperti psichiatri possano rivelarsi in particolari circostanze criminali efferati senza il minimo senso di colpa? Quanto può essere, potenzialmente diffusa quest’anomalia dell’animo umano? La Arendt sosteneva che tali circostanze si possono verificare se mancano le radici, la memoria degli errori passati, il non ritornare sui propri pensieri ed azioni, insomma la mancanza di un dialogo interiore con se stessi. “Gnotzi seauton” (conosci te stesso) era la massima esortazione incisa sul frontale del tempio di Apollo a Delfi; devi conoscere la tua mente per capire il mondo e le persone che ti circondano sosteneva Platone. Sembra però che quest’indicazione si sia persa nei nostri tempi rendendo tutti meno indipendenti nelle scelte della vita, privi di capacità critica ed d’immaginazione ma influenzati da un modello culturale invasivo ed omologante che rende la massa una sorta di “plancton” in balia delle onde e del vento, incapace di guardarsi dentro.

Così oggi quelle terribili domande ritornano insistenti e preoccupanti perché ogni singolo giorno assistiamo, ormai passivamente, assenti come abituati alla “normalità” degli orrori, a crimini, efferatezze, corruzione ed immoralità diffuse spesso commessi da persone assolutamente “normali”, magari da imitare, con sistemi di controllo conniventi spesso latitanti o collusi. Gli episodi recenti ed atroci commessi da bravi e squisiti ragazzi nel carcere di Abu Ghraib, in quei paesi dove era necessario portare la democrazia, ne sono l’evidenza; ragazzi che nei loro paesi erano considerati amabili da tutti, incapaci di molestie e cattiverie si sono trasformati in una banda di spietati torturatori. Si è detto che anche loro seguivano delle regole impartite dall’alto e dai vertici militari che, peraltro, non sono mai stati ripresi. “Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e del nostro criterio morale di giudizio, questa normalità era molto più inquietante di tutte le atrocità messe assieme” scriveva la Arendt; ma oggi è diverso? Questo lacerante interrogativo rappresenta un pensiero di fondo di Zigmunt Bauman che si domanda cosa sia il male; in sostanza come mai le persone buone diventano cattive?

Probabilmente è necessario tornare alle considerazioni della Arendt in merito alla perdita della struttura morale interiore che è diventata labile ed inconsistente, lontana dalle radici e senza memoria. Infatti un comportamento morale presuppone una capacità interiore – il riflettere su se stessi – di capire quale azione sia un bene o un male e quindi di comportarsi di conseguenza ma senza questa struttura interiore si diventa facili prede di comportamenti passivi che ci rendono schiavi di un ordine esterno che viene imposto da interessi superiori. Per capire, dobbiamo guardare al modello socioculturale che ha plasmato le nostre vite in cui il pensiero unico tecnico-razionale si è affermato come verità incontrovertibile e l’economia come scienza morale.

La cultura tecnica-razionale dominante nei nostri tempi ci fa vedere solo il futuro come garanzia di successo e il sole non tramonta mai; si dimentica del passato e degli errori fatti così viene meno la memoria e la previdenza che è la dote che ci distingue di più dagli animali. La “techné” ci ha distaccato dall’intimità di vere relazioni personali sentite, vissute e partecipate; eventi importanti nella vita come il concepimento, la nascita, la malattia e la morte sono ormai considerati solo meri eventi biologici. Le modalità relazionali sono virtuali, fugaci, fulminee e superficiali fatte da un limitatissimo numero di parole; un modello culturale che scivola sull’onda molto più rapidamente del tempo che sarebbe necessario per scendere in profondità. Si forma una non-cultura che va rendendo sempre più sterile ed asettico il rapporto interpersonale, uno “zapping” continuo che impedisce la riflessione ed un dialogo interiore, nella sostanza sterilizza il senso della morale sociale in cui si diventa “tutti contro tutti” ma non “tutti insieme per il bene comune”. L’individuo deprivato della sua intimità perde la dimensione di “persona” e viene economicizzato: un uomo-non umano. La “banalità del male” rischia davvero di diventare una “normalità” e gli orrori passati non rappresentano un’unicità (Anders, “L’uomo è antiquato”).

Il progresso tecnico avrebbe dovuto affrancarci dai dolori e dalle miserie che limitano mortalmente la vita dell’uomo invece non è stato così ma tutto il contrario: sono aumentate le disuguaglianze, la povertà, il degrado morale, la disoccupazione, l’insensibilità verso gli altri che ci espongono ai rischi descritti, definiti da Zimbardo anche come “L’effetto Lucifero” (Raffaello Cortina, 2008).

Allora tutto ciò che continuiamo a definire “crisi economica” dipende da un errato funzionamento delle tecniche dell’economia, da un tecnicismo esasperato che non riesce a ritrovarsi oppure dal collasso di un modello socioculturale? La disuguaglianza e l’immoralità sono problemi tecnici o culturali? L’evidenza dei fatti è drammaticamente di fronte a tutti ma queste “esternalità” negative come dicono gli economisti o “danni collaterali” come li definisce Bauman nessuno vuole vederli. In un tempo in cui si dovrebbe affermare il senso della solidarietà sociale ed il ritorno anche ad una dimensione spirituale dell’animo i valori fondamentali di “uguaglianza, libertà e solidarietà” sembrano essersi dissolti nel vento divorati da un nuovo totalitarismo pseudo-culturale.